Fabio Scaliati, Sabina Ortolano e Arianna Valentini: Intervista per La Favola del Successo

Interviste

Ben ritrovati con le intervista de La Favola del Successo. Oggi abbiamo un incontro molto speciale con un team che ci racconterà una storia di apprendimento davvero interessante. Sono qui con i dottori Sabina Ortolano, Arianna Valentini e Fabio Scaliati del Centro per l’Apprendimento di Forlì e Cesena.

Iniziamo con una provocazione: c’è chi sostiene che parliamo prima di pensare, e quindi pensiamo con le parole che conosciamo. Il dialogo, interno o esterno, è essenziale per formare il pensiero. Ma oggi i giovani hanno un vocabolario sempre più ridotto e usano sempre meno parole. Questo potrebbe impoverire la qualità del loro pensiero. Che ne pensate?

Sabina Ortolano: “Il pensiero si struttura proprio sulla base delle conoscenze linguistiche e delle competenze cognitive. Entrambe si sviluppano grazie all’esposizione ambientale: il linguaggio è una funzione cognitiva che non si apprende come altre competenze, ma emerge naturalmente. È sufficiente che un bambino sia esposto al linguaggio per apprenderne le regole e utilizzarlo ai fini comunicativi. Tuttavia, il linguaggio è influenzato anche dalla lettura, dalla scolarizzazione e dal fattore culturale, che stimolano l’uso di un vocabolario più ampio. Questo a sua volta contribuisce a strutturare meglio il pensiero, rendendolo più evoluto e profondo, e impatta anche sul concetto del sé. In questo senso, è vero che un uso limitato del linguaggio può portare a un pensiero meno articolato, ma un ambiente stimolante può certamente favorire un miglioramento linguistico e cognitivo”.

Ora una domanda per il dottor Fabio Scaliati. Parliamo dell’uso dei dispositivi elettronici da parte dei giovani, in particolare preadolescenti e adolescenti. Notiamo sempre più problemi di attenzione in questa fascia d’età. Come influiscono queste difficoltà sull’apprendimento, soprattutto considerando che spesso l’attenzione è molto superficiale e molte percezioni sembrano non essere registrate?

Fabio Scaliati: “Ottima domanda. Per cominciare, è importante distinguere tra un vero deficit di attenzione, che ha una base neurobiologica ben documentata, e un funzionamento attentivo tipico, che però risente dei cambiamenti dell’era digitale. Anche se gli effetti possono sembrare simili, comprendere le cause della distraibilità è fondamentale per sviluppare strategie operative efficaci. Oggi viviamo in una società iperconnessa, che ci espone costantemente a stimoli forti e frammentari. Questo può portare a una sorta di “disabitudine all’attenzione”. Ad esempio, le nuove generazioni crescono in ambienti dove è sempre più difficile mantenere l’attenzione su un compito per periodi prolungati. È interessante chiedersi se questa costante esposizione possa, nel tempo, causare alterazioni neurobiologiche. Un altro aspetto cruciale è la motivazione: oggi c’è una tendenza a evitare la fatica, come se non fosse parte integrante del processo di apprendimento. Le tecnologie moderne, pur offrendo strumenti utili, spesso riducono l’impegno cognitivo necessario per svolgere un compito. Questo rischia di portare a una superficialità nell’elaborazione delle informazioni. Credo che sia fondamentale distinguere tra problemi neurobiologici e influenze educative per comprendere meglio il fenomeno e affrontarlo nel modo più efficace”.

Fabio ha toccato un tema molto importante. Ora vorremmo proseguire il discorso con Arianna. Parliamo di logopedia. In passato i genitori portavano i figli dal logopedista per correggere problemi specifici, come la famosa “zeppola” o alcune forme di dislessia. Tuttavia, non tutti sanno che la logopedia comprende anche la respirazione, specialmente quella diaframmatica, che può influire positivamente sulla postura. Questo è particolarmente rilevante per i ragazzi di oggi, che tendono a parlare con il volto reclinato, abituati a guardare i cellulari o a stare chini sulla scrivania. Cosa ne pensi di questa situazione?

Arianna Valentini: “La logopedia è un ambito estremamente vasto, ed è per questo che spesso le famiglie faticano a comprenderne tutte le implicazioni. Non si tratta solo di correggere suoni specifici, come la “zeppola” o difficoltà nella pronuncia. Sempre più spesso, il nostro lavoro si orienta verso le competenze orali globali: la postura della lingua, la respirazione e persino aspetti posturali generali. Questi elementi non servono solo a parlare correttamente, ma contribuiscono anche allo sviluppo delle competenze cognitive più avanzate. Per i ragazzi di oggi, la dipendenza da dispositivi elettronici e la ridotta interazione diretta con gli altri influenzano negativamente non solo le abilità linguistiche, ma anche la capacità di instaurare relazioni efficaci. Questo ha ripercussioni non solo sull’infanzia, ma anche sulle fasi successive della vita. La logopedia, quindi, non si limita a lavorare sul linguaggio, ma mira a sviluppare competenze cognitive e sociali fondamentali per crescere e vivere bene nella società”.

Una domanda a Sabina. Parliamo di un tema di grande attualità: l’ozio creativo e il ruolo della noia nell’apprendimento. La parola scuola deriva dal greco skolè, che significa “tempo libero” o “tempo per pensare”. Oggi, invece, ogni momento sembra dover essere riempito di attività o intrattenimento, spesso mediato da dispositivi elettronici. La noia, che un tempo stimolava la creatività, sembra essere scomparsa. Voi, che vi occupate di apprendimento, come vedete il ruolo della noia e dell’ozio creativo al giorno d’oggi?

Sabina Ortolano: “La noia ha in realtà una funzione adattativa molto importante, anche se oggi questa idea può sembrare controintuitiva. Viviamo in un’epoca di iperconnessione, in cui il tempo vuoto viene percepito come una fonte di frustrazione. Questo porta molte persone a cercare immediatamente qualcosa per riempirlo, spesso connesso alla tecnologia. Dal punto di vista pedagogico e psicologico, però, la tolleranza alla frustrazione è una capacità cruciale che va sviluppata fin dall’infanzia. La noia, se gestita correttamente, stimola i bambini a trovare strategie interne per affrontare la frustrazione, favorendo lo sviluppo di capacità cognitive e sociali. Un tempo, l’esposizione naturale a situazioni prive di distrazioni obbligava i bambini a inventare soluzioni. Oggi, invece, molti genitori tendono ad anticipare e prevenire qualsiasi situazione di disagio, creando un circolo vizioso che elimina la possibilità di apprendere da queste esperienze. La noia dovrebbe essere rivalutata e persino proposta come attività educativa. Noi, che lavoriamo con i bambini, suggeriamo spesso ai genitori di lasciare spazi vuoti nella giornata, momenti in cui i bambini possano esplorare la loro creatività senza essere continuamente stimolati. È importante che anche i genitori imparino a tollerare questi momenti e a non cadere nella tentazione di riempirli con dispositivi tecnologici. La noia, insomma, è una risorsa preziosa che può aiutare i bambini a crescere in modo più armonico ed equilibrato”.

Sabina, oggi, con l’uso intensivo di strumenti digitali, si elimina spesso il dialogo tra genitori e figli. I bambini, immersi in queste attività, non hanno voglia di parlare e finiscono per chiudersi. In questo modo, diventa difficile capire cosa pensano e come si sentono. Che ne pensi?

Sabina Ortolano: “Esattamente. Ma non è solo una questione di “voglia”. Quando il bambino è immerso in un’attività digitale, non sente nemmeno la necessità di comunicare. Le competenze comunicative si sviluppano solo se c’è un bisogno che le attiva. Se un bambino è completamente assorbito in un videogioco o un’altra attività passiva, non ha motivo di dialogare. Invece, se non gli offri quel tipo di stimolo, la necessità di interagire con gli altri emergerà naturalmente. Insomma, meno stimoli tecnologici, più dialogo e relazione”.

Questo accade, forse, perché il genitore teme che, togliendo quegli stimoli, debba impegnarsi di più e dedicare più tempo al bambino?

Sabina Ortolano: “È come se alcuni genitori delegassero la gestione del tempo dei figli a dispositivi tecnologici, un problema sempre più comune nella genitorialità moderna. Questo porta a una questione cruciale: non è la quantità di stimoli a fare la differenza, ma la loro qualità. Creare un contesto stimolante e ricco di relazioni umane può aiutare i bambini a sviluppare bisogni comunicativi più profondi e competenze relazionali migliori”.

Fabio Scaliati: “Posso aggiungere qualcosa? Oggi vediamo che la comunicazione si sta trasformando: è sempre più sincopata, ridotta a brevi momenti impulsivi. I ragazzi rispondono agli stimoli ambientali solo quando costretti, e spesso lo fanno con irritazione. Ad esempio, se il genitore interrompe un videogioco per chiamarli a cena, la risposta del bambino sarà vissuta come un’interferenza fastidiosa.

Ciò porta a reazioni impulsive e rabbiose. Insegnare empatia e riflessione è una sfida, perché i ragazzi crescono in una bolla di autoreferenzialità. Rispondono in modo coerente con l’ambiente in cui vivono, un ambiente che non promuove la pazienza o la comprensione degli altri. Questo spiega perché oggi ci sono più irascibilità e impulsività nei comportamenti”.

Sabina Ortolano: “E aggiungerei che l’iperconnessione ha trasformato anche il nostro rapporto con il tempo e la noia. Oggi siamo abituati a ottenere risposte immediate. Se non conosciamo il significato di una parola, basta chiedere a Siri o cercare su Google, e il bisogno viene soddisfatto all’istante.

Questo ha portato molte persone, non solo i bambini, a sviluppare un’incapacità di aspettare. L’attesa, che un tempo ci insegnava a tollerare la frustrazione e a riflettere, è diventata insostenibile per molti. Questo non riguarda solo i bambini: anche gli adulti si aspettano risposte immediate, che si tratti di un appuntamento o di una necessità quotidiana. Questa mancanza di pazienza ci allontana dall’empatia e dalla comprensione delle esigenze degli altri”.

Arianna Valentini: “ Questo atteggiamento ci impedisce di riconoscere che il nostro bisogno termina dove inizia quello dell’altro. Per riscoprire l’empatia, è necessario rallentare, abituarsi ad aspettare e considerare i sentimenti e le necessità altrui. Solo così possiamo costruire relazioni più profonde e autentiche”.

È un bellissimo argomento. Ma ora vorremmo proseguire parlando del vostro progetto educativo. Qual è la sua essenza?

Fabio Scaliati: “Il nostro progetto nasce da un’idea condivisa da me e Sabina. Sin dall’inizio, abbiamo unito le nostre esperienze formative e professionali per creare un centro che fosse qualcosa di più di una semplice struttura: un luogo in cui le competenze si intrecciassero in modo concreto.

Questo approccio ci ha portato a fondare un’equipe vera, non solo nominale. Per noi, il concetto di “equipe vera” significa andare oltre il rapporto professionale formale. Ciò richiede un coinvolgimento profondo da parte di tutti, indipendentemente dal ruolo.

Come centro clinico, ci siamo impegnati a integrare le competenze di psicologi, logopedisti, psicomotricisti ed educatori, coinvolgendoli direttamente nel percorso clinico. In pratica, vogliamo che un educatore che lavora nel doposcuola parli la stessa “lingua” del clinico che condivide le informazioni, e viceversa. Questo dialogo permette di affrontare le problematiche in modo più efficace, considerando prospettive diverse e coinvolgendo anche le famiglie, elemento essenziale nei nostri percorsi”.

Come si inserisce la vostra esperienza personale in questo progetto?

Fabio Scaliati: “La mia esperienza personale è stata una delle motivazioni principali per intraprendere questa strada. Sono stato diagnosticato come dislessico durante l’università, grazie al professor Stella, un pioniere nel campo neuropsicologico. Questo mi ha dato una prospettiva unica: ho vissuto in prima persona le difficoltà e i limiti degli strumenti progettati da chi non ha mai sperimentato quei bisogni.

Con il tempo, insieme a Sabina e poi con il contributo di altri, come Arianna, abbiamo sviluppato metodologie e strumenti che fossero realmente funzionali. Il nostro obiettivo è creare modelli che aiutino le persone con difficoltà a superarle, fornendo risposte pratiche e accessibili”.

Sabina Ortolano: “Il cuore del nostro lavoro è proprio questo: integrare clinica, terapia ed educazione in un sistema che sia il più funzionale possibile. Lavoriamo per colmare il divario tra teoria e pratica, condividendo le esperienze tra i diversi professionisti del centro e coinvolgendo le famiglie. Questo approccio trasversale è ciò che rende il nostro centro unico”.

Arianna, hai un’esperienza più recente rispetto a Fabio e Sabina. Com’è stato per te inserirti in questo contesto?

Arianna Valentini: “Sono arrivata sette anni fa, fresca di laurea e piena di entusiasmo. Pensavo di sapere già tutto, ma mi sono presto resa conto che la pratica è molto diversa dalla teoria. All’inizio è stato difficile: il nostro centro richiede non solo competenze tecniche, ma anche un investimento personale.

Entrare a far parte di un gruppo così coeso e impegnativo è stata una sfida, ma allo stesso tempo estremamente motivante. Qui non si tratta solo di fare diagnosi o seguire un percorso prestabilito: è un lavoro di continua condivisione, dove ogni risultato è il frutto di uno sforzo collettivo”.

Ci piacerebbe riflettere con voi su un termine un po’ desueto, ma che troviamo particolarmente calzante per descrivere il vostro lavoro: koinonia.

Questa comunione di intenti e bellezza che vi unisce sembra essere alla base della vostra capacità di affrontare sia le difficoltà che l’impegno quotidiano richiesto dal vostro centro. Quanto questa koinonia vi ha aiutato a costruire il vostro percorso, a innovare i vostri modelli e a sviluppare le soluzioni che offrite?

Fabio Scaliati: “Questo senso di comunità e collaborazione è ciò che ci permette non solo di affrontare i problemi, ma anche di integrarli con la nostra storia e la nostra esperienza. Negli anni, abbiamo costruito dei modelli che non solo risolvono problematiche specifiche, ma aiutano le persone a superare una mentalità limitante. Ad esempio, con Arianna, abbiamo avuto l’opportunità di rivedere alcune strutture consolidate, migliorandole grazie alla sua prospettiva nuova”.

Arianna, come hai contribuito a questa trasformazione?

Arianna Valentini: “Quando sono entrata a far parte del team, ho portato un approccio un po’ diverso, grazie alla mia formazione più recente e al mio desiderio di innovare. La vera sfida è stata integrare il mio punto di vista con l’esperienza e i metodi già consolidati di Fabio e Sabina. Ho capito presto che qui non si tratta solo di risolvere un problema specifico, ma di affrontarlo guardando all’intero contesto: il ragazzo, la famiglia, la scuola, e persino le attività quotidiane come lo sport”.

Quindi il vostro lavoro non si limita al ragazzo, ma coinvolge tutto il contesto. È così, Arianna?

Arianna Valentini: “Assolutamente sì. Non si può lavorare isolatamente sul ragazzo senza considerare il sistema che lo circonda. Il nostro approccio è familiare e comunitario. Ci occupiamo non solo del problema specifico, ma anche di come la famiglia, la scuola e l’ambiente sociale reagiscono e contribuiscono alla situazione”.

Fabio, hai parlato di quanto sia importante cambiare mentalità per uscire da una comfort zone disfunzionale. Puoi spiegare meglio questo concetto?

Fabio Scaliati: “Certo. La comfort zone di cui parlo non è solo una questione di abitudini, ma una sorta di rifugio asettico che molte persone, ragazzi e adulti, costruiscono attorno ai loro limiti. Ad esempio, un ragazzo dislessico può pensare: “Non leggo perché sono dislessico”. Questo diventa un alibi per non affrontare la difficoltà. Io ribalto questa prospettiva, dicendo che è positivo che non voglia leggere: significa che è intelligente e ha capito che c’è una difficoltà. Il passo successivo è aiutarlo a trovare la motivazione per leggere non come dovere, ma come mezzo per raggiungere obiettivi più grandi”.

Ci sembra che il vostro progetto abbia un’impronta davvero originale. Come tradurreste questa complessità in un libro?

Fabio Scaliati: “L’idea sarebbe quella di strutturare il libro in modo che rifletta il nostro approccio integrato. Partiremmo dalla descrizione del nostro metodo e delle basi scientifiche che lo supportano, per poi passare a raccontare casi pratici ed esperienze dirette. Includeremmo anche strumenti concreti e modelli che possano essere utilizzati da altri professionisti o dalle famiglie. Il libro potrebbe essere anche uno strumento per aiutare le persone a cambiare prospettiva e ad affrontare le difficoltà con maggiore consapevolezza”.

Sabina Ortolano: “Vorremmo anche sottolineare l’importanza delle relazioni e del lavoro di squadra, mostrando come la condivisione di competenze e il dialogo possano fare la differenza. Il nostro libro non vuole essere solo un manuale tecnico, ma anche un racconto di come la passione e la collaborazione possano trasformare le difficoltà in opportunità”.

Un progetto molto interessante. Vi ringraziamo per questa conversazione. È stato un piacere ascoltarvi.

Guarda la videointervista di Fabio Scaliati, Sabina Ortolano e Arianna Valentini:

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